L’accettazione con beneficio d’inventario non esclude di per sé la responsabilità degli eredi, ma la Suprema Corte ribadisce l’intrasmissibilità a questi ultimi delle sanzioni irrogate al de cuius.

21 Ottobre 2022

Con l’ordinanza n. 31013, depositata il 20 ottobre 2022, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in tema di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario e relativa limitazione della responsabilità degli eredi, nonché in punto di intrasmissibilità a questi ultimi delle sanzioni amministrative irrogate nei confronti del de cuius.
La controversia origina da un avviso di accertamento notificato nel lontano 1981 ai fini IRPEF e ILOR, con contestuale applicazione di sanzioni amministrative per oltre 2 miliardi delle vecchie Lire.
A fronte dell’esito sfavorevole del giudizio di primo grado attivato avverso il provvedimento dinanzi all’allora Commissione tributaria di primo grado di Roma, il giudice del gravame accolse parzialmente l’appello del contribuente, rideterminando in difetto il reddito e, conseguentemente, riducendo il quantum oggetto della pretesa tributaria.
La sentenza fu impugnata sia da parte privata che da parte erariale dinanzi alla Commissione tributaria centrale di Roma. Tuttavia, pendente la controversia, si verificò il decesso del contribuente, ragion per cui si costituì in giudizio la figlia di quest’ultimo, dando atto dell’avvenuta accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario da parte dei chiamati e della formazione dello stato di graduazione con susseguente distribuzione delle somme tra i debitori dell’attivo.
Con pronuncia depositata nel 2013 la Commissione centrale rigettò l’impugnazione di parte privata, ritenendo giuridicamente irrilevanti gli accadimenti sopravvenuti dedotti in giudizio, relativi alle predette vicende ereditarie.
Tale decisione, pertanto, fu impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione che, ravvisando un’ipotesi di litisconsorzio necessario, dispose l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri eredi del contribuente.
Il ricorso dinanzi al Giudice di legittimità si articola in quattro motivi:
(i) violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 8 e 25 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in punto di intrasmissibilità delle sanzioni irrogate nei confronti del de cuius e violazione del principio di personalità;
(ii) nullità della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. per intercorsa violazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell’art. 6 CEDU, poiché ritenendo irrilevanti le citate vicende ereditarie avrebbe pregiudicato il principio di ragionevole durata del processo, così obbligando gli eredi a proporre un nuovo giudizio avente ad oggetto medesimi petitum e causa petendi;
(iii) violazione degli artt. 490 c.c., 46 del D.Lgs. n. 546/1992 e 39 del d.P.R. n. 636/1972, poiché la Commissione centrale non ha tenuto conto dell’intervenuta accettazione con beneficio d’inventario dell’eredità, evento da cui pacificamente discenderebbe la limitazione della responsabilità degli eredi al valore del relictum anche in relazione ai debiti erariali;
(iv) da ultimo, nullità della pronuncia in relazione agli artt. 100 c.p.c., 46 del D.Lgs. n. 546/1992 e 39 del d.P.R. n. 636/1972 per omesso rilievo della sopravvenuta carenza di interesse dell’Amministrazione finanziaria – in forza delle predette vicende ereditarie – a ottenere un provvedimento confermativo delle proprie ragioni: ciò in quanto l’attivo ereditario si era medio tempore esaurito, atteso il perfezionamento della distribuzione delle somme tra i debitori dell’attivo senza alcun residuo per le passività insoddisfatte.
Occorre precisare, in primo luogo, che la Corte ha statuito nel senso dell’infondatezza degli ultimi tre motivi di ricorso.
Anzitutto, con riferimento al terzo ed al quarto motivo il Collegio ha ritenuto di dare continuità a un preesistente orientamento giurisprudenziale.
In particolare, l’art. 490 c.c. stabilisce che il beneficio d’inventario ha il precipuo effetto di tenere distinti i patrimoni del defunto e degli eredi, i quali ultimi rispondono dei debiti ereditari e dei legati solo intra vires hereditatis.
Da ciò consegue l’obbligo di operare un distinguo a seconda che la pretesa erariale sia fatta valere a mezzo di un avviso di accertamento (espressione del potere accertativo dell’Amministrazione finanziaria) o di una cartella di pagamento (atto della riscossione).
È solo nella prima ipotesi, infatti, che l’Ufficio individua il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria (i.e. l’erede del de cuius, originario contribuente) e quantifica gli importi dovuti, con la conseguenza che l’erede non può invocare la limitazione della propria responsabilità, ai sensi del citato art. 490 c.c., nel giudizio di contestazione della legittimità della pretesa fatta valere a mezzo del provvedimento impositivo (vale a dire l’avviso di accertamento), avendo tale giudizio natura “oppositiva di manifestazioni di volontà fiscali “esternate” al contribuente, senza cioè che possa farsi luogo a preventive azioni di accertamento negativo del tributo”.
A tal riguardo, pertanto, la Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto secondo cui “l’accettazione con beneficio di inventario da parte degli eredi non preclude all’amministrazione finanziaria di accertare l’obbligazione tributaria del de cuius e, quindi, l’an ed il quantum debeatur, fermo restando che la pretesa esecutiva dovrà essere compiuta tenendo conto, eventualmente, della responsabilità intra vires degli accettanti” (richiama anche Cass. n. 22571/2021 e n. 6610/2013, nonché la pronuncia n. 6070/2013 resa a Sezioni Unite).
Stessa sorte subisce il secondo motivo di ricorso, in quanto a parere del Supremo Consesso di legittimità il giudice a quo ha correttamente valutato le allegazioni in relazione alla natura del contenzioso sull’atto impositivo (avviso di accertamento e non cartella di pagamento), “demandando ogni ulteriore questione circa l’esecuzione della pretesa erariale all’apposita sede giudiziale”.
L’ordinanza in parola ha invece accolto il primo motivo di ricorso.
A giudizio della Corte, l’art. 8 del D.Lgs. n. 472/1997 (atteggiandosi come lex mitior introduttiva di una disciplina più favorevole rispetto al previgente art. 3, co., 2, della L. n. 4/1929, che prevedeva una sanzione civile trasmissibile agli eredi) si applica – ai sensi dell’art. 25 s.d. – non solo ai giudizi in corso al 1° aprile 1998, data di entrata in vigore della norma, ma altresì alle violazioni commesse anteriormente, come nel caso oggetto della controversia in esame.
Tale soluzione appare adeguata al principio della responsabilità personale (o di personalità, stabilito dall’art. 2 del medesimo D.Lgs. n. 472/1997), quale principio di ordine generale che sancisce la riferibilità della sanzione amministrativa alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione.
Tale principio produce i suoi effetti indipendentemente dal fatto dell’avvenuta irrogazione della sanzione con un provvedimento definitivo, poiché la voluntas legis appare chiaramente orientata nel senso che il credito dell’Erario sorto a seguito della violazione di una legge tributaria da parte di una persona fisica si estingue col decesso di quest’ultima. Alla morte dell’autore della violazione, infatti, consegue il venir meno dell’interesse erariale a resistere al ricorso proposto dal contribuente. Tale posizione si pone in continuità con un preesistente orientamento giurisprudenziale che trova espressione, inter alia, nelle pronunce della Suprema Corte n. 27188/2012, n. 25529/2021 e n. 18862/2005.
Pertanto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, l’ordinanza in commento ha dichiarato l’erroneità della sentenza emessa dalla Commissione tributaria centrale di Roma nella parte in cui ha inteso confermare nei confronti degli eredi del contribuente la pretesa erariale in punto di sanzioni, cassando la sentenza impugnata e decidendo nel merito con l’accoglimento del ricorso originario in parte qua.

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