L’istanza di voluntary disclosure non configura una nuova dichiarazione di successione

14 Luglio 2022

Abstract

La presentazione di un’istanza di voluntary disclosure in cui si dichiari l’esistenza di un compendio ereditario sito all’estero non indicato nella dichiarazione di successione a suo tempo presentata in Italia non costituisce dichiarazione integrativa, pertanto l’Agenzia delle Entrate non può tener conto del termine di presentazione dell’istanza per la notifica dell’avviso di liquidazione. Lo afferma la Suprema Corte con sentenza n. 20933 del 2022.

Il caso

Nel dicembre del 2015, la ricorrente, in qualità di erede, presentava istanza di voluntary disclosure (“VD”) dichiarando l’esistenza di un compendio ereditario sito nel Principato di Monaco non riportato né nella dichiarazione di successione presentata nel 2010, né tantomeno nelle due dichiarazioni integrative presentate nel 2012 e nel 2013. A fronte della presentazione dell’istanza, nel 2016 l’Agenzia delle Entrate (“AdE”) notificava alla ricorrente un avviso di rettifica e liquidazione per l’imposta di successione contestando l’infedeltà della dichiarazione medesima in ragione del contenuto della VD.
La Contribuente impugnava l’avviso di rettifica e liquidazione davanti la Commissione Tributaria Provinciale (“CTP”) rilevando la nullità dell’atto impositivo, in quanto emesso oltre il termine biennale di accertamento previsto dall’art. 27, c. 3, TUS per le ipotesi di dichiarazione infedele. La CTP respingeva il ricorso, recependo le difese dell’Agenzia secondo cui l’istanza di VD integra una nuova dichiarazione di successione sebbene nulla e quindi omessa, con conseguente decorso ex novo dei termini di accertamento.
La Contribuente proponeva appello davanti la Commissione Tributaria Regionale (“CTR”), eccependo il difetto di motivazione per aver l’Agenzia delle Entrate modificato le ragioni della pretesa impositiva in sede contenziosa rispetto al contenuto dell’avviso di liquidazione.
L’Ufficio, infatti, nell’atto impositivo aveva in origine contestato l’infedeltà della dichiarazione e solo a seguito dell’eccezione di decadenza formulata dalla Contribuente, aveva sostenuto che l’imposta di successione fosse dovuta sul presupposto che la VD costituisce una nuova dichiarazione. Tuttavia, la CTR respingeva l’appello affermando che l’Ufficio non avesse modificato le motivazioni originarie, ma avesse soltanto proceduto ad una mera riqualificazione del “nomen iuris” della pretesa tributaria.
La Contribuente ricorreva in cassazione con ricorso affidato a plurimi motivi, sintetizzabili nell’errata applicazione delle norme in tema di motivazione, nella violazione dell’art. 27 TUS per intervenuta decadenza dei termini di accertamento, nonché nell’errata interpretazione dei fatti di causa in quanto la vertenza in oggetto andava inquadrata nella fattispecie di infedeltà della dichiarazione.

La pronuncia

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul tema, ribalta le decisioni dei giudici di merito e accoglie il ricorso della Contribuente.
In primis, la Corte afferma che l’istanza di VD non può essere considerata alla stregua di una nuova dichiarazione di successione, ciò in quanto quest’ultima deve rispondere a determinati requisiti di forma a pena di nullità.
La procedura di VD nulla dispone in tema di imposte di successione e donazione, con la conseguenza che in presenza di violazioni, l’Agenzia deve esercitare i propri poteri di accertamento rispettando i diversi termini di decadenza previsti dall’art. 27 TUS a seconda che il contribuente presenti o meno la dichiarazione integrativa relativa ai beni esteri.
Nel caso in esame, l’Ufficio con l’avviso di liquidazione notificato nel 2016 operava una rettifica della dichiarazione integrativa presentata dalla contribuente nel 2013, contestando l’infedeltà della dichiarazione in forza di quanto emerso in sede di VD. Tale avviso, quindi, risultava emesso fuori termine, in quanto notificato dopo più di due anni dal pagamento dell’imposta di successione avvenuto nel 2013.
Ciò premesso, la Corte si sofferma sulla questione relativa alla modifica in corso di giudizio delle ragioni inerenti la pretesa tributaria, escludendo che all’Agenzia fosse permesso alterare le ragioni sostanziali evidenziate nell’atto impositivo.
La motivazione dell’avviso, infatti, è posta a presidio del diritto di difesa del contribuente in quanto, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’Ufficio in sede contenziosa, consente una corretta dialettica processuale. L’integrazione o la modifica delle ragioni dell’atto impositivo determinano una pretesa tributaria nuova e diversa da quella originaria, la quale deve essere formalizzata in un nuovo atto impositivo che sostituendosi al primo evidenzi gli elementi di fatto sopravvenuti.
Secondo la Suprema Corte, quindi, se l’Agenzia riteneva che l’imposta di successione dovesse essere versata in ragione dell’assimilazione della VD ad una nuova dichiarazione, avrebbe dovuto emettere un nuovo avviso di liquidazione, corredato da opportuna motivazione. Peraltro, i giudici affermano che nel caso in cui l’Ufficio erroneamente muti la causa petendi in sede contenziosa, il relativo motivo di appello eccepito dal contribuente non configura una nova in appello, ma si pone “come sviluppo della linea difensiva adottata in primo grado”.
Le conclusioni cui giunge la Corte sono sicuramente degne di nota. In primo luogo, i giudici ribadiscono che solo rispettando l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, il Contribuente può legittimamente difendersi in giudizio in quanto edotto delle ragioni sui cui si fonda la pretesa tributaria. Inoltre, sebbene l’istituto della VD non sia oggi più in vigore, l’Agenzia ha chiarito che il contenuto della VD potrebbe essere utilizzato dall’Ufficio per contestare l’infedele dichiarazione di successione purché siano rispettati i termini di decadenza sanciti dall’art. 27 TUS.

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