La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) nella sentenza del 27 gennaio 2022 C-788/19, ha valutato la compatibilità al principio di libera circolazione dei capitali di una normativa spagnola in tema di cd. “monitoraggio fiscale”. In estrema sintesi, tale disciplina, analogamente a quella italiana, obbliga i contribuenti residenti ad indicare nel “Modello 720” (assimilabile al Quadro RW italiano) gli asset detenuti all’estero. Le attività detenute all’estero e non dichiarate, ovvero dichiarate in modo inesatto, vengono considerate “plusvalenze patrimoniali non giustificate”, come tali considerate come redditi per il loro intero ammontare. Ciò consente all’Amministrazione finanziaria spagnola di procedere con la rettifica dell’imposta dovuta senza limiti di tempo, in deroga agli ordinari termini prescrizionali. La sanzione prevista è pari al 150% dell’importo della sanzione base prevista per i casi di inadempimento o ritardo. Vengono inoltre irrogate sanzioni forfettarie per ogni omissione informativa sui beni detenuti all’estero. Secondo la CGUE, tale impianto normativo crea una disparità di trattamento tra i residenti in Spagna in ragione del luogo in cui si trovano i propri redditi. Ciò determina un effetto dissuasivo rispetto al trasferimento da parte delle persone fisiche dei propri attivi all’estero, determinando quindi una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Tale restrizione tuttavia è legittima, secondo la CGUE nei limiti in cui volta a garantire l’efficacia dei controlli fiscali rispetto ad asset detenuti all’estero e l’obiettivo della lotta all’evasione. Interessante è notare come, secondo la CGUE tale esigenza sussiste anche nel caso di asset detenuti in Stati che attuano un effettivo scambio di informazioni. Si pone tuttavia il problema di stabilire se tale normativa è proporzionata rispetto al risultato da raggiungere. A tale riguardo, la CGUE ha ritenuto che l’imprescrittibilità dell’azione accertatrice derivante dall’inadempimento di un obbligo dichiarativo costituisca conseguenza abnorme rispetto al fine di garantire l’efficacia dei controlli e la lotta all’evasione. In secondo luogo, la CGUE ha dichiarato l’illegittimità della sanzione proporzionale del 150% dell’importo dell’imposta evasa. Ciò in quanto tale misura sanzionatoria conferisce alla norma un carattere estremamente repressivo che, sommandosi alle altre sanzioni di carattere forfettario, arreca un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali. Infine, la CGUE considera parimenti contrastanti con il principio di proporzionalità le suddette sanzioni forfettarie conseguenti all’inesatta compilazione del Modello 720, le quali risultano molto più elevate di quelle di cui sono passibili i contribuenti spagnoli per i casi di inesatta dichiarazione di redditi “nazionali”. Sulla base di tali premesse, quindi, la Corte ha statuito che il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi su di esso incombenti in forza del principio di libera circolazione dei capitali ex art. 63 TFUE. In conclusione, la CGUE conferma in linea di principio la compatibilità della disciplina in tema di monitoraggio fiscale con la libertà di circolazione dei capitali. Tuttavia, la CGUE afferma altresì che le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione di tale disciplina non possono essere sproporzionate diverse rispetto a quelle applicate nelle fattispecie interne. Sotto tale profilo, i principi espressi nella sentenza in commento, ferma restando la confermata legittimità della disciplina in tema di monitoraggio fiscale, possono riverberare i propri effetti anche nell’ordinamento italiano. Ciò in particolare per quanto riguarda le attività detenute in Stati a fiscalità privilegiata, cd. black list. In Italia, infatti, le sanzioni per le violazioni degli obblighi di monitoraggio variano dal 3% al 15%. Tali sanzioni sono tuttavia raddoppiate in caso di contribuenti residenti in Stati considerati come black list (art. 5 del DL 167/90). Inoltre, i capitali detenuti all’estero in Stati black list e non dichiarati si presumono costituiti con redditi non assoggettati a tassazione in Italia. Conseguentemente, l’Agenzia delle Entrate (“AdE”) può recuperare a tassazione le imposte evase in base alla suddetta presunzione (art. 12 del D.L. 78/2009). In tale ipotesi, le sanzioni ordinarie previste in tema di imposte sui redditi vengono raddoppiate dall’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento. A questa sanzione deve essere applicata la maggiorazione di un terzo per l’omessa indicazione dei redditi esteri, con riferimento alle imposte o alle maggiori imposte relative a tali redditi. La sanzione base di dichiarazione infedele va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato. In caso di raddoppio, dunque, le sanzioni possono giungere al 180/360%. Complessivamente, in caso di Stati black list, le conseguenze sanzionatorie sono nettamente superiori a quelle previste dalla normativa spagnola, ritenute sproporzionate dalla CGUE. Meno univoche sono le conclusioni in merito all’illegittimità dei termini di accertamento, in base alla normativa italiana. In Italia, infatti, i provvedimenti di irrogazione delle sanzioni relative al quadro RW devono essere irrogati entro il quinto anno successivo a quello di commissione della violazione. Tale termine è raddoppiato in caso di attività detenute in Stati black list (art. 20, D.lgs. 472/1997). Inoltre, nel caso in cui operi la presunzione di redditività, i termini di accertamento ai fini delle imposte sui redditi sono pari a circa 10/14 anni, a decorrere dall’anno in cui la dichiarazione è stata/avrebbe dovuto essere presentata. In tale caso, non è chiaro se tale misura possa essere considerata non proporzionata al pari della disciplina spagnola che prevedeva una proroga indefinita dei termini di accertamento. Dunque, alla luce delle considerazioni della CGUE rispetto al modello spagnolo, appare evidente che anche il nostro sistema è suscettibile di modifica. Le attuali misure sanzionatorie e accertative previste per gli Stati black list dovrebbero essere applicate solo con riguardo a quelle attività detenute in Paesi non collaborativi che possono effettivamente mettere in pericolo l’efficacia dei controlli fiscali. Per completezza, sull’incompatibilità del sistema sanzionatorio italiano rispetto alla disciplina europea sul monitoraggio fiscale, l’Associazione italiana dei dottori commercialisti (“AIDC”) ha presentato alla Commissione europea una denuncia nel dicembre del 2019.